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Quelli che vincono [Andrea Scanzi]

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*Manu*16
view post Posted on 1/7/2010, 22:12     +1   -1




Nadal, Federer, Djokovic, Murray: i vincenti sono loro. Per gli altri solo briciole.
Ma lo spettacolo sta altrove.

Rafael Nadal, Spagna. L'atletismo ai massimi livelli. Costantemente capace di migliorarsi, in grado di stupire (Wimbledon) e ristupire (Australian Open). Ha liberato il tennis dalla affliggente Dittatura Catacombale del Vegano, e questo basta per benedirlo. Poi, certo, non è il bene maggiore ma (dei quattro) il male minore. Lo spettacolo è un'altra cosa, come il talento puro. Nadal è la straordinarietà della grinta, il recupero impossibile, la resistenza inumana: da qui, e da alcune sue frequentazioni non immacolate, la strisciante accusa di doping. Però non è neanche giusto definirlo mano quadra: nel tempo ha migliorato rovescio, servizio e persino gioco di volo, grazie a quella umiltà che Federer mai ha avuto. Inquietante nel suo rosario illimitato di tic (da compulsivo ossessivo vero), sgradevole nei rituali snervanti pre-servizio (smutandata compresa: davvero tamarra). Fino a due anni fa era il più grande specialista della terra rossa, ora un campione a tutto tondo. Tra i più grandi di sempre. Ma il fisico, ginocchia e non solo, comincia a scricchiolare. E non si capisce quanto tale strapotere fisico potrà durare: quel tanto che basta per rintuzzare definitivamente i colpi di coda del Dittatore, se possibile.

Roger Federer, Svizzera. Ah, quanto è stato lungo, mellifluo e - in buona sostanza - palloso il suo quinquennio (o giù di lì) dittatoriale. Neanche un piano sequenza di mezzora di Abbas Kiarostami avrebbe devastato così in profondità gli zebedei di tutti coloro che non si chiamano Mirka Vavrinec e non appartengono alla tribù fondamentalista dei Federasti Piangenti. Dalla fine del 2003 alla metà del 2008, fatto salvo Nadal e un Safin occasionale, giornali e tivù erano un coro unanime di peana politicamente corretti: Quanto è bello Federer, quanto è bravo, quanto è garbato, quanto è imbattibile. "Il più grande di sempre", bla bla bla. L'opposizione era negata, gli avversari non esistevano. Solo vassalli. Il trionfo della sudditanza psicologica, l'incubo del one man show. Leggevi Tennis Italiano e ti beccavi 87 pagine di Laudi incensanti. Accendevi la tivù e ti beccavi Federer che benediceva la plebe, indossava la giacchina della comunione a Wimbledon e faceva una carezza tenera al vassallo per il servilismo dimostrato. Una Dittatura cupa, all'apparenza garbata ma in realtà assolutista. Priva della benché minima pietà. Chiaro che Federer si divertiva, come accade allo zio che gioca a tressette col nipote di due anni e vince sempre: capita così quando giochi da solo. Ma almeno, col nipote, non hai attorno il pubblico che chiede pathos. Federer, coi suoi modi gentili fuori e sadici dentro (nessuno come lui, negli anni, ha amato minare dalle fondamenta la psiche dei servitori, irridendoli con messe di 6-0), stava ammazzando il tennis. Peggio: lo stava addormentando. La noia imperava, non vi era suspence, non vi era stupore, non vi era sorpresa. Solo un assolo sempiterno del primo della classe, ogni tanto accipigliato perché il maestro (Rod Laver?) gli aveva dato 7 e non 9.5. Davvero agghiacciante, quel tempo. E quella inumana corsa al record, quel feticismo da vittoria, quel desiderio inaccettabile di negare la propria umanità. Poi è arrivato Nadal, e il tennis si è liberato del Despotismo Vegano. Da allora Federer vive l'autunno del patriarca, continua a vincere ma sempre meno. E i Federasti, i più permalosi del microcosmo tennistico, mugugnano lividi e inconsolabili, come tutti i pretoriani quando la statua del Dittatore cade e non c'è nemmeno una straccio di Repubblica di Salò (o di Basilea) a cui aggrapparsi. Imprecano. Insultano. Straparlano di "morte del tennis", non sapendo che fino ad oggi il "becchino" elegantemente vestito era stato proprio Indesit The King. Ma a soffrire più di tutti è lui, è Federer, che interiorizza il Golgota freudianamente (parola che non conosce, come non conosce Freud). Si picca, come i bambini a cui hanno tolto il giocattolo. Frigna dopo le sconfitte, manco fosse all'asilo. Si aggrappa a un doppio olimpico per questuare un trionfo. Ieri faceva ace nelle palle break, ora doppio fallo. Barcolla, si nasconde per mesi, persegue il suo lamento (ma guai a chiedere aiuto, a cercare un allenatore, a cambiare tattica: la sua somma presunzione non glielo permette, significherebbe ammettere di essere fallibile). Federer preferisce "indossare" la griccina permalosa, il labbrino con gli occhi lucidi: uno spettacolo tragicomico, nel suo genere. Come è tragicomico quel suo litigare con Hawk Eye, Occhio di Falco, la moviola in campo: un robot che litiga con un computer, neanche Isaac Asimov era mai arrivato a tanto. Nelle conferenze stampa, Rogi nega ostinatamente di essere diventato (con merito) il numero due del mondo. Per forza: il suo hardware non contempla la sconfitta, il suo software non era programmato per lottare ma per Dominare. Per lui la sconfitta è dramma esistenziale: dolore che non può avere lenimento. Federer è (senz'altro) un tennista straordinario. Lo ricorderemo in eterno. La speranza (vana) è che la polvere gli restituisca umanità e lo liberi da cotanto inseguito torpore. E' però un peccato che tale talento, tale grazia, tale anelito alla perfezione sia stato donato a un frigorifero. Re Frigidaire. Il primo Federer era stupendo, iconoclasta, folle. Quel Federer pre-robotico ha abiurato se stesso in nome del Dominio. Da Gilles Villeneuve a Michael Schumacher. Che tristezza. Federer è un robot capace di accendere la folla come un battipanni di vimini (di plastica no, sarebbe troppo poco cool). Un Churchill col carisma di Quiesling. La sua dittatura è stata un terrificante soliloquio egoriferito, politicamente corretto, protetto dall'intoccabilità come neanche il Papa. Neanche il gibboso e linguapenzoluto Sampras era così caratterialmente amorfo. La sua kryptonite si chiama Nadal. Se Federer fosse un telegiornale, sarebbe il Tg1. Se fosse un vino, sarebbe un Supertuscan. Se fosse un film, sarebbe una scena tagliata di Michelangelo Antonioni. Se fosse una pietanza, sarebbe un brodino.
Se fosse un uomo, faticherebbe ad essere Federer.

Novak Djokovic, Serbia. C'è una storiella, quella del Tiranno di Siracusa, il cui sottotesto è: si stava meglio quando si stava peggio. Cioè rimpiangeremo persino il Dittatore di prima, perché questo è pure peggio. Cioè arriveremo al punto da richiedere indietro Veltroni, perché Franceschini non si può votare. Ed eccoci, ordunque: Il Duce Serbo è il male maggiore, ma toccherà sopportarlo a lungo, perché non è solo forte: è sadico. Cannibalmente attratto dal trionfo plebiscitario. Federer, al di là delle iperboli, delle metafore politiche e del carisma obitoriale, gioca sontuosamente (non sempre, spesso sì) a tennis. E' un bel vedere, per quanto somigliante a un disco di David Gilmour o un libro di Alessandro Baricco. Djokovic, no: il suo tennis è una palla sovrumana. Piace a chi vuole vincere e a chi stravede per la tattica. Piace a chi concepisce il tennis come una branchia della geometria e dell'architettura. Bravi, bene 8 +, ma se è così meglio avvicinarsi a Renzo Piano. Djokovic è il nuovo Lendl, e già questo basterebbe a detestarlo (anche se perfino Lendl aveva i suoi tifosi, persone che come gli astemi hanno qualcosa da nascondere). Però Lendl, nella sua personificazione del Male, anzi del Maligno, in quella sua liturgia di tic bestiali (le ciglia spulciate, l'orrido detergersi nella segatura) e look orrorifico (quei polsini più lunghi del Tamigi) aveva un merito. Uno solo: rappresentava benissimo il ruolo del Cattivo. Non aveva pregi e non pretendeva di averne. Era l'uomo da odiare, l'anti McEnroe, l'anti-Bellezza. E il mondo (quello salvo, almeno) gioiva nel vederlo umiliato a Wimbledon, più ancora irriso dal servizio "da sotto" di Chang. Lendl si presentava senza mediazioni, Djokovic no. Lui è berlusconiano, in questo. Mira al potere, anela alla dittatura, baratterebbe qualsiasi cosa per lo Scettro, ma tiene alle buone maniere. Non vuole solo la botte piena, ma pure la moglie ubriaca. Il plauso di pubblico e critica. E allora fa burlesche imitazioni (dei colleghi), racconta barzellette (come Berlusconi), continua a canticchiare quel motivetto celentaniano che fa "Eppure son simpatico". Col risultato di non essere né carne né pesce. Né buono, né cattivo. Solo antipatico. E soporifero: non un tennista ma un Meccano. La filosofia di Djokovic è il chiagnefottismo. E' l'uomo dei ritiri e del medical time out. Se perde è colpa di infortuni imprecisati, di dolori impalpabili, del buco nell'ozono o della crisi finanziaria. E' sotto di un set? Tac, chiama il medico, un quarto d'ora di pausa e l'altro perde il ritmo. Una prassi, questa, così oliata che quando sta male sul serio - ad esempio agli ultimi Australian Open - all'inizio non ci crede quasi nessuno (Sindrome Al Lupo Al Lupo). Djokovic è pienamente Lendovic nella bramosia di vittoria. In campo lo vedi respirare affannosamente, sembra dover svenire da un momento all'altro, lo sguardo basso, la prossemica pienamente chiagnefottista. Ogni tanto si lamenta perché l'altro osa tirare un gran colpo (come Federer, concepisce la bravura altrui una sorta di onta inaccettabile). Però è sempre lì, Novak (per gli adepti Nole). E così a un certo punto lo vedrai esultare ed esaltarsi con ferocia sadica. Gli occhi iniettati di sangue, le grida belluine, il braccio che va a toccarsi marzialmente il cuore. Neanche Napoleone durante la Campagna d'Egitto esultava così. Djokovic è ducesco financo nell'estasi: il mento sporgente, l'aria dittatoriale, lo sguardo trasfigurato dalla sete di potere. Come se fosse perennemente affacciato a Piazza Venezia. Lui non intende vincere: desidera devastare. Questo trionfo di amabilità è ulteriormente riverberato dai 78 rimbalzi pre-servizio, dal suo spulciarsi qua e là (appunto, come Lendl) e dall'allegra famigliola al seguito: mamma, papà, fratelli. Tutti bellamente urlanti, sobriamente vestiti, gradevolmente voraci. Lendovic ha vinto il suo primo (e sin qui unico) Slam a Melbourne nel 2008, poi ha alternato grandi cose (Masters, Master Series) a lunghe letargie.
Epperò rassegnatevi: non ricrescerà l'erba dopo il suo cammino.

Andy Murray, Scozia. Qui la vicenda è più complessa. Sono stato uno dei primi a parlarne bene in Italia, nel 2005 mi lanciai in un suo sperticato elogio dopo averlo visto smunto e oltremodo approssimativo al Queens. Era a inizio carriera, un bambino alle prime armi, ma c'era in lui quello che appare adesso manifesto: le capacità geometriche, la buona mano, la dote non comune di trascinare il pubblico. Il suo limite era il fisico, dopo due set era cotto. Oggi no, oggi - dopo una cura di sushi e spinaci Braccio style- è il quarto del mondo. Il suo primo Slam è solo questione di mesi. A volte gioca ricordando Mecir, a volte si fa pavido rammentando il peggior Wilander. Ma ha carattere. Anche troppo: personaggio vero, amato e odiato. E' lui, non Djokovic, quello che più merita il ruolo del Cattivo. Perché non insegue, a differenza del situazionista del medical time out Djokovic, il plauso unanime. Lui ama dispiacere, riuscendoci alla grande. Murray è respingente in tutto quello che fa e mostra: nella pettinatura da comparsa di Dario Argento, nei denti aguzzi da Vampiro. In quelle urla virulente. Nelle espressioni mefistofeliche. Per molti, me compreso, il crinale tra il seguirlo e il detestarlo (sportivamentte eh, che solo di tennis discorriamo) è stato l'ultimo Wimbledon. Per due set fu zimbellato da Gasquet, un bellissimo Gasquet, che nel terzo servì per il match. Lì, ovviamente, implose. Da quel momento Murray impersonò come nessun altro Satana. Il Centrale divenne un'arena. Murray era il gladiatore e Gasquet null'altro che carne da macello. Il pubblico decretava la morte sportiva del liberto francese, Murray sguazzava (metaforicamente) nel sangue e ne godeva. Fu uno spettacolo raccapricciante, crudelissimo. Martirio vero. La morte definitiva di una meteora (Gasquet) e la nascita definitiva del Vampiro Carnivoro. L'ultima istantanea, grandguignolesca, fu Murray, il bianchiccio Murray, che mostrò al volgo (e alla madre non meno esagitata) il suo bicipite trionfante. Un bicipite per nulla sviluppato, rachitico, eppure ferale nella sua bieca normalità. Raramente ho assistito a cotanto calvario, neanche l'ultimo Muhammad Ali scontò così tanto la pena con Larry Holmes. Da allora mi è impossibile tifare anche solo minimamente per il Vampiro Hooligan. Ma gli riconosco due (grandi) meriti: saper giocare a tennis e non inseguire affatto il politicamente corretto. Murray si presenta per quello che è, senza sovrastrutture buoniste o paraculusche. E' cattivo e lo sa.
A differenza di due suoi altolocati colleghi.
 
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Eric Draven 91
view post Posted on 2/7/2010, 20:10     +1   -1




Se fossi gay, Andrea Scanzi lo sposerei!
Ihihihi, altro che Povia! xD
 
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Michele Gira
view post Posted on 6/9/2020, 20:38     +1   -1




Faccio mia in differita (ma con palpitante ed accresciuto coinvolgimento) tutta l'acredine verso l'orrido serbo ma, per mera decenza, argomentiamo di "BRANCA" (geometrica od architettonica si intenda) e lasciamo serenamente la branchia (!) nel più pertinente ambiente acquatico. Saluti tra i conati. M.G.
 
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2 replies since 1/7/2010, 22:12   594 views
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